Baggio, Totti, Tevez e il biopic all’italiana
Sono usciti in Italia a pochi mesi di distanza i due biopic sulla vita di due tra i più grandi calciatori italiani di sempre: Francesco Totti e Roberto Baggio, Speravo de morì prima e Il Divin Codino. Il primo è una serie in sei puntate da quaranta minuti; il secondo un film di un’ora e mezza. La prima considerazione da fare dopo averli visti è la seguente. C’è una sciagura che si sta abbattendo da diversi anni sul cinema italiano, dunque sulla costruzione dell’immaginario collettivo legato a quest’arte: la mania bozzettistica e caricaturale della somiglianza fisica dei personaggi a quelli della vita reale di cui vogliono raccontare le gesta.
Il linguaggio cinematografico mal digerisce il fatto di essere ridotto a imitazione della realtà: o è la realtà o funziona per metafora; questi due estremi comprendono tutta la sua enorme potenzialità, e la mimesi della realtà non è contemplata, è proprio un’altra cosa, come succede con la poesia e le altre arti.
Purtroppo questo modo di fare rispecchia l’esigenza di andare incontro allo spettatore, servirgli la pappa pronta in un intento di puro intrattenimento, televisivo anziché cinematografico. Mi si dirà che queste serie sono pensate appunto per la televisione, e destinate a un pubblico generalista, sportivo per lo più, che cerca prodotti fatti in questo modo, quindi cosa potevo aspettarmi? Intanto c’è da dire che quello su Baggio è un film, non una serie, e poi credo che oramai questo approccio sia una sorta di pratica tristemente necessaria che ha invaso anche il cinema, basti pensare ai film Hammamet (Craxi) o Volevo nascondermi (Antonio Ligabue).
Prendiamo come esempi il film su Baggio e la serie su Totti, per poi andare a vedere cosa succede invece fuori dall’Italia, in particolare in Argentina con la serie Apache, sulla vita di Tevez. Ogni personaggio viene valutato più per la somiglianza alla realtà che per la sua funzione nella storia, più per la caricatura che per il suo rapporto dialettico nell’ambiente filmico o per tutti quegli elementi che descrivono il talento di un attore: la misura significativa della recitazione, l’intonazione di ogni singola battura, il portato poetico della sceneggiatura che lui sa porgere. Tutto buttato alle ortiche. La prima cosa che ha detto Antonio Cassano dopo aver visto la serie su Totti è stata: “Il mio personaggio non mi somiglia”; poi che la storia reale è diversa. Ecco, non si va oltre, e Cassano è un ottimo metro di paragone, in quanto persona verace e per niente costruita. C’è però da chiedersi se sia un limite. Cosa importa che la storia non sia reale? L’importante è il messaggio finale e come ci si arriva. Contenuto e forma: la realtà va necessariamente riscritta.
Troppo complicato? Forse. Ma il cinema fatto bene, così come la canzone, certe cose le ha sempre sapute fare benissimo, rendendole semplici. Non facili, per carità, ma semplici sicuramente.
Roberto Baggio è stato il più grande calciatore italiano di tutti i tempi. Il film ne racconta molto bene alcuni aspetti, che vanno ben oltre il calcio. Non era solo un calciatore: dietro ogni stop c’erano la vita e l’estetica. Era qualcosa di plastico, inspiegabile, perché la balistica di quello che faceva in campo era già un linguaggio, aveva un significato che andava oltre i calci a un pallone: quella sua, con quelle ginocchia scavate dal bisturi, era una sfida quotidiana e continua contro l’arroganza di Golia. Aveva la forza delle cose semplici, costruite giorno per giorno.
Raccontare tutto questo tramite la semplice cura imitativa di Trapattoni, di Mazzone o di Sacchi è quasi offensivo. Discorso a parte merita il protagonista, interpretato da Andrea Arcangeli. Arcangeli ha dimostrato di essere un mostro di bravura. La somiglianza c’è, innegabile ma naturale. Il resto la fa la sua capacità di attore, la cura dello sguardo, quell’atteggiamento puramente umano che va oltre l’icona, scende nel profondo e caratterizza ogni gesto, ogni stop che precedeva di un istante lo sguardo furtivo, testa alta e postura esteticamente impeccabile.
Baggio è stato il calciatore che ha fatto capire al mondo che si può cadere ma con impegno ci si deve rialzare; andrebbe insegnato nelle scuole. Che dalla sofferenza si può risorgere; che ti devi porre un obiettivo seriamente se lo vuoi raggiungere e che solo tu fai la differenza nella tua vita. O, almeno, devi fare di tutto perché sia così. Tutte le storie che, per valere la pena di essere raccontate, non possono prescindere da un contenuto più profondo su cui ci si deve concentrare. Non è solo riproporre i gol di Usa ’94; anzi, quello deve essere sempre e solo un mezzo, non il fine.
È per questo che la serie Apache sulla vita di Carlos Tevez credo rappresenti tutto ciò che i biopic su Baggio e Totti non sono riescono a essere. La serie vuole raccontare da dove viene Tevez, e che questo fa tutta la differenza del mondo. Tevez proviene da un ambiente degradato, da strade ricolme di malavita. Gli otto episodi che compongono la serie raccontano soprattutto il Tevez dodicenne. Il suo passaggio al Boca, con tutto quello che rappresentava quella maglia, il calcio che ti salva e tu che però devi avere un impianto valoriale saldo per resistere. Quando hai descritto il cardine, se è quello giusto, il resto viene da sé e non c’è bisogno di parodiare la realtà. Di fatti, di caricaturale nella serie su Tevez c’è ben poco. La somiglianza del ragazzino protagonista, ok, ma poi si ragiona per metafora, a partire dal personaggio di Danilo Sanchez, colui che nella realtà si chiamava Darìo Coronel, migliore amico di Tevez e che, leggenda vuole, fosse addirittura più forte di lui. Quelle strade ti rimangono addosso perché è stato il linguaggio del cinema a portartici dentro. Inserire personaggi e fatti inventati ma funzionali ti fa capire che l’aspetto contenutistico centrale è talmente forte e importante da essere esemplare, il materiale creativo assume un ruolo cruciale per far capire quanto fosse importante celebrare la realtà, quella realtà, quei luoghi, quella biografia.
Capisci meglio persino il film su Baggio, e capisci quanto sia assurdo per esempio il paragone che si fa spesso tra Baggio e Maradona. Baggio veniva dalla provincia italiana, da una realtà sociale imparagonabile e si è portato dietro inevitabilmente certe dinamiche psicologiche che non ti togli mai di dosso, amato di un amore familiare domestico, protettivo ed educato ma anche rude. Gli argentini, così come i brasiliani, che vivevano delle periferie degradate e giocavano con le pallottole che sfrecciavano sopra le loro teste, non avevano il tempo di pensare a tutte queste cose. E in campo si vede.
C’è un momento, un attimo storico e iconico che Il Divin Codino tenta sciaguratamente di riproporre filmicamente. Sono delle riprese reali, fatte nel tunnel poco prima della finale Italia-Brasile del ’94. Le squadre stanno per entrare in campo e vengono inquadrati in un sol colpo Baggio e Romario, alternando il fuoco della camera.
Lì capisci cosa c’era dentro gli occhi dell’uno e dell’altro, con l’italiano che guarda il brasiliano, il quale se ne curava poco, concentrato e alle prese con il proprio cinismo naturale. Baggio invece, probabilmente, pensava alla promessa fatta al padre tanti anni prima, quella di vincere la finale con il Brasile. Gomorra contro Piccolo mondo antico. È tutto lì, e il grande cinema si nutre del racconto di questi attimi. Riproporli iconicamente è semplicemente un’occasione persa.
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