Canzone d’Autore d’Abruzzo
Devo ammetterlo: negli ultimi anni ho sviluppato una forma d’amore viscerale per la mia terra, l’Abruzzo. Le sono sempre stato attaccato, va detto, però l’amore di quest’ultimo lustro è un amore adulto, maturato dopo anni in cui le sono stato lontano.
Dopo la laurea sono andato a Roma per un master e lì sono rimasto diversi anni. Roma è tanto, forse troppo. C’è una cosa che caratterizza l’abruzzese appena se ne va di casa: il non sentirsi adeguato rispetto a chi “fa le cose a livello nazionale” (in genere si dice e si pensa proprio così). Roma però è una palestra perfetta: non la contieni e non va contenuta, la mastichi giorno dopo giorno e non dà confidenza. Tutto questo in me si traduceva nella mancanza di un senso ciclico. Lì ho vissuto anni molto belli, sia chiaro; sereni, per lo più. Ho conosciuto persone a cui sono ancora molto legato; ma Roma è dispersiva e lineare, io no.
E allora sono tornato. Sono tornato per scelta, non più inadeguato. Sono tornato nel 2011 per insegnare a scuola. È stato in quel periodo che ho davvero cominciato a mettere radici. E mi sono accorto che, dopo il ritorno, vedevo l’Abruzzo in maniera diversa.
Di quel periodo ricordo una mia recensione del disco di Umberto Palazzo: Canzoni della notte e della controra. Eccola qua . Non so se per via del mio momento personale, ma ne scrissi come fosse la cosa più naturale del mondo, come qualcosa di necessario prima di tutto a me stesso. Quel disco descriveva il Sud, raccontava tutti i Sud. Per me rappresentò la palingenesi decisiva, l’azzeramento di ogni cosa e lo sguardo con occhi diversi sulla mia terra. Uno sguardo vecchio, vecchissimo, quello di gente vissuta molto prima che io nascessi.
L’avevo guardata da lontano per anni, fino a poche settimane prima. Ora un cantautore, mio conterraneo, me ne cantava l’essenza, nuda, cruda, senza il campanilismo provinciale ch’è proprio degli amori senza percorso, senza distanza, senza respiro.
È da tutto questo che nacque l’idea di scrivere un libro sul miglior cantautore che l’Abruzzo abbia mai avuto: Ivan Graziani. Anche Ivan, forse, aveva avuto le mie stesse paure, su tutte quella di non sentirsi all’altezza. Ne ho avuto conferma facendo ricerche, leggendo interviste, parlando con le persone che lo conobbero bene. Ho capito che lui quel timore prima lo nascose e poi lo cacciò via dandogli il nome. Lo paragonò a una paura che conosceva bene: i lupi. Da lì in poi Ivan Graziani è stato devastante. I lupi, Pigro, Agnese, dolce Agnese: tre dischi perfetti.
Perché, più o meno, per l’abruzzese funziona così: prima il mondo lo annusi in silenzio e pieno di dubbi, che ti fanno acquisire tutte le competenze che possano risolvere la tua presunta inadeguatezza; poi vai fuori e gli dai un nome; poi torni e metti tutto a frutto. Siamo ciclici.
Spesso qualcosa si inceppa, perché il percorso costa fatica.
Si è inceppata in Paolo Fiorucci, forse il più talentuoso cantautore sotto ai quarant’anni che io conosca. Fiorucci ha una capacità di scrittura fuori dal normale. Le immagini e i simboli te li mette davanti con una chiarezza sconvolgente; il timbro di voce (nei momenti ispirati) è profondo e autentico, senza voler impostare una parvenza artefatta, ma con confidenza cordiale e mai distante. Attualmente abita a Popoli, ha in progetto di aprire una libreria e sembra che di canzone non voglia più sentir parlare. Non so se abbia giocato un ruolo importante il fatalismo e l’indolenza delle nostre parti, ma sembra non scriva più. Spero non sia vero.
Consigli per gli ascolti. Questo è il suo canale YouTube. Ascoltate Dorwinion; parla dell’Abruzzo e in questo articolo non poteva mancare:
Ricordati un filo di lana
per giocare allo sherpa sulla neve aquilana,
un filo di luna che sembra Majella,
la cima con gli occhi a portata di stella.
Sono versi che ti porti dentro dopo il primo ascolto, e da lontano ti fanno da amuleto e filo per non smarrire mai la strada del ritorno. È un passo che ha una potenza che raramente capita di ascoltare, ma quando accade fa sembrare tutto al proprio posto, per la capacità di “far ridere e piangere una parola”.
Poi Nel paese di Alice, la sua canzone più bella.
Se dovessi individuare un capofila della canzone d’autore oggi in Abruzzo farei il nome di Adriano Tarullo. Ha la capacità di raccontare storie di provincia, quella che aveva Ivan Graziani: storie di vite ridotte al minimo solo per piccole ipocrisie di paese, la calura sabbiosa e indolente di certi luoghi, da narratore presente e ficcante. Di Graziani ha la caratteristica di far nascere i brani dalla chitarra, che nel suo caso è chitarra blues. Parolare la musica, questo fa Tarullo.
Consigli per gli ascolti. Questo è il suo canale YouTube. Di Tarullo consiglio alcune canzoni dell’ultimo album, uscito in questo 2017, Storie di presunta normalità. Ascoltate La nuora nera, Colm Thomas o Quella strana allegria dei cipressi.
Chiudo con una segnalazione importante, di un disco che ho ascoltato in questi giorni ed è uscito ufficialmente lo scorso 9 giugno. La cantautrice è Lara Molino, l’album è Fòrte e gendìle, e non credo ci sia bisogno di scrivere, a giudicare dal titolo, perché io lo citi qui. È anche scritto e cantato molto bene, però. Soprattutto, è sorprendente la capacità di riportare l’anima allegra e ‘superstiziosa’ di questa terra, l’aderenza di ritmi e musiche autoctone con la propria sapienza di scrittura. I testi delle canzoni sono in abruzzese, e nel libretto sono riportate anche le traduzioni in italiano e… in inglese! Ogni canzone, inoltre, ha un’introduzione scritta, perché non è vero che dei pezzi non bisogna parlare. La canzone d’autore ha bisogno di tempo, di parole; tra chi canta e chi ascolta si deve stabilire una comunicazione speciale. Se non altro, per gustare la differenza fra parlare di canzone e poi parlare in canzone.
Consigli per gli ascolti. Questo è il suo canale YouTube. Del disco consiglio Mazzemarèlle e Lu fóche di San Tumasse.
Di cantautori, in vita mia, ne ho ascoltati e conosciuti tanti. Prima di riflettere sugli argomenti che ho scritto fin qui, però, non avevo mai capito quant’è importante che le canzoni prendano forma anzitutto dal fatto di corrispondere al carattere del proprio territorio. C’è un libro di Alan Lomax che ritengo cruciale in tal senso: L’anno più felice della mia vita – Un viaggio in Italia. Leggendolo si capisce come in Italia le varie realtà particolari, per ciò che riguarda la musica e la canzone, siano state devastate dal bel canto e dal pop, troppo spesso melodrammatico, del Festival di Sanremo. Ciò che oggi accomuna musicalmente l’Italia, per i più, è quella canzone lì. Ieri sera, per caso, su RaiUno ho visto Laura Pausini cantare una canzone di Lucio Dalla come cantasse del suo Marco che non torna più, accompagnata al pianoforte da Cesare Cremonini che dimenticava le parole. Non possiamo ridurci a questo.
Un altro tipo di canzone è sempre esistita e fa corrispondere l’autore con la propria cultura particolare, con le proprie tradizioni musicali. Non sto parlando di folk o di musica popolare, ma di canzone d’autore, della miglior fattura. Quella che intreccia le proprie origini con l’espressività orizzontale di un linguaggio condiviso.
Sarebbe bello cominciare a vedere da vicino tutto questo nelle varie zone d’Italia.
Mi sia concesso partire dal mio Abruzzo.
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