Claudio Baglioni, cantautore totale
  1. Lo scritto che segue ha il suo nucleo centrale nel capitolo dedicato a Claudio Baglioni del mio libro “Il canone dei cantautori” (Carabba, 2017). Ricordo che – più o meno una quindicina di anni fa – esistevano degli spazi denominati newsgroup, che erano comunità del tutto simili a dei forum di discussione, in cui si riunivano fan ed estimatori dei vari cantautori. Io ero iscritto a diversi di essi e anche a quello dedicato a Baglioni. Ricordo che lì si facevano analisi corali dei suoi brani e venivano fuori cose molto interessanti. Mi piacerebbe se questo spazio potesse accogliere anche altre voci oltre alla mia, perciò invito i lettori a mandarmi considerazioni analitiche in privato. Quelle che reputerò più interessanti saranno inserite in questo articolo. Buona lettura.

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Claudio Baglioni è uno dei casi più eclatanti di ‘ostracismo’ dal novero della canzone d’autore italiana da parte della critica e del giornalismo musicale.  La motivazione risiede negli album e nei brani di Baglioni degli anni Settanta, che per i detrattori proponeva l’icona adolescenziale e strappalacrime degli amori più o meno corrisposti, giudicati come pop ruffiano e melenso.

Si prenda però per esempio l’album Solo (RCA, 1977). Anzitutto Baglioni qui firma sia musiche che testi, mentre le musiche dei precedenti dischi sono sempre firmate in coppia cono Antonio Coggio. L’efficacia inusuale di certe trovate armoniche e melodiche di Baglioni si vedono già dalla canzone che dà il titolo al disco. Così la descrive il chitarrista Domenico Gialloreto:

C’è un uso sapiente e raffinato della costruzione armonica. Solo sfrutta un movimento ascendete del basso (all’inizio esegue la scala di Do maggiore per intero fino al La) e poi, quando dice “non tagliare i tuoi capelli mai” la fa al contrario (discendente) sfruttando i “cromatismi” che conferisco quel sapore malinconico. Prima di fare un bel salto di tonalità da Do a Mib, quello sì tipico di Baglioni.

Di seguito ascoltiamo il passo in questione, suonato dallo stesso Gialloreto:

Il disco Solo, poi, è un concept album sulla solitudine, in cui ci sono descrizioni di personaggi emarginati dalla società (ma non solo), per un autore che si guarda intorno e riparte dalle storie singole. Duecento lire di castagne sembra richiamare Vincenzina e la fabbrica di Jannacci:

Duecento lire di castagne
sopra il cavalcavia,
fiocchi di cenere nel cielo,
l’inverno bussa già.
Presa a contare le corriere
che stan sfrecciando via:
l’intervallo lei lo passa qui,
sola senza compagnia.

C’è uno sguardo molto efficace nelle immagini autunnali:

E mai più le ciminiere,
le sirene, la città,
i cancelli e i capannoni bagnati
di foschia e di umidità;
e mai più sedersi a mensa
tra malinconia e purée:
la catena, il nastro, i giorni che vanno via
col carrello del caffè.

Nell’album sono presenti altre canzoni degne di menzione, come Nel sole, nel sale, nel sud o Gagarin, che – come detto – descrivono varie solitudini: da un anonimo tassista di Rio de Janeiro a un astronauta che la storia ricorderà per sempre. Insomma, il disco Solo è il preludio al Baglioni possentemente d’autore, che da lì e per oltre vent’anni scriverà alcune delle pagine più interessanti per ciò che riguarda il modo di usare il codice ‘canzone d’autore’ in Italia.

Per la canzone d’autore italiana, Baglioni è senz’altro un artista canonico per via di un’egregia capacità musicale compositiva a livello strutturale: dal punto di vista armonico, i brani di Baglioni non si limitano ad accompagnare le parole, ma costruiscono una tela sonora esclusiva, che indirizza e dona significato a certe evocazioni testuali, a volte più narrative e plastiche, come nel caso dell’album La vita è adesso (CBS, 1985), altre più schizzate, analogiche e liriche, come nel caso di Oltre (CBS, 1990). Le melodie di Baglioni poi sono spesso scritte al pianoforte, e raramente subiscono la pigra modalità della creazione dedotta dal susseguirsi armonico.[1]

Baglioni ha anche capacità vocali fuori dal comune, principalmente per ciò che riguarda l’estensione, che tecnicamente gli permette di poter sfruttare una forbice di altezza del suono più ampia della norma, come accade felicemente in Mille giorni di te e di me (Oltre).

Chi abbia provato a cantare e a suonare qualche canzone di Claudio Baglioni si sarà accorto subito che non si tratta di una cosa semplicissima. Occorre avere un’estensione vocale molto ampia per affrontare sia note estremamente acute che note molto basse. Anche gli accordi usati non sono mai banali, perché nelle composizioni c’è sempre una ricerca dei giusti rivolti, usati in modo talmente personale da far sì che non possano essere sostituiti dai generici accordi in stato fondamentale, senza una significativa perdita di senso.[2]

Baglioni inoltre, in particolare dal 1990 in poi, inserisce una poetica poderosa nel proprio stile di scrittura. È il 1986, il cantautore romano ha trentacinque anni e il suo ultimo album è La vita è adesso, il disco fino ad allora più venduto nella storia italiana. Il tour di quell’anno si chiama Assolo, sarà registrato e uscirà in un triplo album con un inedito, Il sogno è sempre, un brano pianoforte-e-voce.

Tutto questo, si comprenderà, dona una rappresentatività decisiva all’artista, condita da un alone solitario ‘da cantautore’, eppure ancora allora non del tutto riconosciuto dalla stampa e dalla critica. Leggiamo però una felice eccezione critica di quel periodo, Enrico de Angelis:

L’ultimo Baglioni […] ha imprevedibilmente ripristinato tra i giovanissimi un valore che avevamo creduto atrofizzato per sempre: quello della parola, dell’ascolto […]. Sono proprio i nuovi testi ad essere bellissimi: dicono in bella forma e con ispirata commozione cose sensate, comprensibili e concrete, al contrario dell’andazzo corrente (anche tra i cantautori) e in linea invece con la canzone d’autore classica.[3]

Più in là nell’articolo leggiamo che Baglioni sembra addirittura dire «anche troppo», sia incontinente verbalmente, comunque scegliendo accuratamente le parole: qui pare di leggere un articolo del 1972 dello stesso de Angelis, quando si parlava di Guccini come «uno dei primi cantautori d’avanguardia italiani», un «vulcano di parole, di immagini, di impressioni, di concetti».

Pur se con funzione spesso conativa tipica del pop (d’altronde il cantautore romano è anche un importante rappresentante dell’età applicativa, come detto) Baglioni qui crea anche una poetica d’autore. Nei testi, per esempio. Proprio in La vita è adesso i «visi/ di bambini contro i vetri» o, nello stesso album, nel brano Uomini persi «piccole giostre/ con tanta luce e poca gente/ e un giro soltanto», oppure i «marinai dietro gli occhiali storti e tristi/ sulle barchette coi gusci delle noci» o, ancora, nell’album Strada facendo (CBS, 1981), gli spezzoni chiamati ’51, Montesacro che inframmezzano le canzoni: una raffica di ricordi che fanno parte di un topos ben preciso:

Un topos di notevole valore nelle canzoni dell’autore romano è rappresentato dai rimandi al mondo infantile. Sono accenni, versi o parti di versi, che richiamano alla mente situazioni riguardanti l’infanzia e legate alla vita di tutti, collocate nella memoria di ognuno di noi. Sono personali ricordi di circostanze che, verosimilmente, sono state vissute da tutti nella propria puerizia. Mi piacerebbe chiamare queste immagini ‘ricordi infantili collettivi’.[5]

Ho scritto poco sopra che Baglioni inserisce una poderosa poetica contenutistica almeno da La vita è adesso in poi; il picco è raggiunto negli anni Novanta. Oltre infatti è il primo atto della cosiddetta ‘Trilogia dei colori’, che comprende i tre album di quel decennio, assieme a Io sono qui (Columbia, 1995) e Viaggiatore sulla coda del tempo (Columbia, 1999). Oltre è la descrizione di una cosmogonia, è il passato: un disco di venti inediti, molto strutturato, in cui Baglioni abbandona lo stile da cantautore pianoforte-e-voce[6] degli anni Ottanta e, come abbiamo visto, de Il sogno è sempre. La voce non è che uno strumento fra gli altri, elemento che si confonde col tutto informe dell’humus creativo: questo disco si può a buon diritto indicare come esempio raro in cui l’accezione più pura e quella d’antonomasia dell’espressione ‘canzone d’autore’ arrivano a coincidere.

Oltre è un album letterariamente molto curato. Prendiamo la canzone forse più conosciuta del disco, Mille giorni di te e di me. Leggiamone un passo, in particolare la strofa che sfocia nel secondo ritornello:

Ci separammo un po’ come ci unimmo,
senza far niente e niente poi c’era da fare
se non che farlo e lentamente noi fuggimmo
lontano dove non ci si può più pensare.
Finimmo prima che lui ci finisse
perché quel nostro amore non avesse fine:
volevo averti e solo allora mi riuscì,
quando mi accorsi che ero lì per prenderti.

Il brano racconta una separazione, e descrive come spesso paradossalmente il sentimento d’amore raggiunga il culmine proprio nel momento del distacco. La canzone, pur riproponendo l’icona dello struggimento d’amore, non demanda a essa la propria artisticità, ma a una costruzione significante degli elementi formali in gioco. Ci accorgiamo che queste due strofe, in cui in sostanza si materializza il ricordo dell’effettivo distacco e si descrive l’epitaffio della storia, sono costruite con un lessico pieno di termini antitetici come ‘separammo/unimmo’ o ‘averti/perderti’, quasi a disegnare la tribolazione interiore dello stato d’animo del distacco, e figure etimologiche come ‘far, fare, farlo’ o ‘finimmo, finisse, fine’, che palesano la snervante sensazione di un elastico che si tende all’infinito, fino a sfibrarsi senza un taglio netto, ma con fortissimi strascichi di dolore. Per questo aspetto, è fondamentale la caratteristica della ‘f’ e di altre consonanti fricative, che eludono accuratamente qualsiasi percezione di nette occlusioni.

Si è già accennato a quanto l’estensione vocale sia fondamentale per questo brano: anche qui gli accordi e la melodia diventano elementi significanti che concorrono alla valenza artistica del brano. Il titolo viene cantato una sola volta, per sottolineare il momento cruciale del distacco. Leggiamo le ultime parole del brano in quel punto.

Mille giorni di te e di me.
Ti presento
un vecchio amico mio,
il ricordo di me.
Per sempre, per tutto quanto il tempo,
in questo addio
io mi innamorerò di te.

Se alla base del brano c’è il concetto che il momento doloroso del distacco sia quello in cui l’amore è più forte (almeno quello di uno dei due), musicalmente Baglioni rende questa idea ponendo sulle parole appena riportate la nota più alta dell’intera canzone, in particolare al verso «per sempre, per tutto quanto il tempo»[7], per poi declinare velocemente a resa sul verbo «m’innamorerò», con note ordinatamente discendenti e un verbo al futuro, a evocare l’inevitabile, crudele scemare della passione dei due che si spegnerà nel tempo.

E in questo punto, con la melodia che ora spicca il volo portandosi su un registro più alto, fa capolino, finalmente il titolo della canzone, con quei «mille giorni di me e di te» che rappresentano ciò che rimane di una storia che oramai è andata. A sottolineare il momento importante della canzone c’è una pausa poco prima del titolo, ed è una pausa in cui non è solo la voce a fermarsi, ma è proprio tutto l’arrangiamento, come a tirare un respiro prima del momento culminante del titolo. Risulta evidente, perciò, che il ritornello era rimasto in sordina fino a ora proprio per marcare l’importanza da dare al titolo, che compare solo una volta, in questo punto. In aggiunta alla pausa, alla comparsa del titolo, e alla melodia nel registro alto, intervengono anche altri elementi a mettere in risalto questo momento: c’è spazio anche per un momentaneo cambio di tempo in 2/4 e per una modulazione alla tonalità di RE maggiore.
L’ulteriore cambio di tonalità spinge la voce di Baglioni verso picchi altissimi, che rendono questo pezzo estremamente difficile da cantare con le sue due ottave e mezzo – dal mi (2) al la (4) – di estensione vocale. […] Il testo racconta di un addio finale in cui il ricordo di sé (che si vuole rafforzare proprio con il massimo spiegamento vocale) viene consegnato all’altra persona come ciò che rimane di quei mille giorni, rievocati dalle note dolci e cullanti del pianoforte che, passato in tonalità di SI minore, conclude sfumando.[8]

Melodia, accordi, timbro vocale e particolarità testuali, dunque, in Baglioni compongono un’unità musical-letteraria raffinata e spesso complessa, che rende il suo stile esemplare e canonico.

Il coperchio del pianoforte verrà riaperto solo nel 1995, nel primo gesto dell’album Io sono qui (CBS, 1995): «Dove sono stato in tutti questi anni?», il presente.

Riscoprirà il divertimento di descrivere il presente e il mondo che lo circonda, lo farà con la metafora cinematografica: le canzoni di Io sono qui sono inframmezzate da vere e proprie didascalie piano-e-voce che usano il linguaggio cinematografico («scene veloci», «macchina a spalla» etc.). Il ‘girato’, ovviamente, sono le canzoni: immagini date dalle parole, melodie, armonia, timbrica e range vocale che mettono in pratica quelle didascalie.

Questi primi due dischi sono propedeutici al terzo: Viaggiatore sulla coda del tempo (Columbia, 1999), il futuro. L’album parla di un viaggio, appunto, nel blu elettrico futuribile, tra nuovi codici internet da compitare, nella speranza di trovare le origini e una coerenza esistenziale alla fine del tragitto. E la fine del tragitto è l’ultima canzone dell’album e della Trilogia: si intitola A Cla’, un brano in cui l’artista Baglioni ritrova l’uomo Claudio e gli chiede se tutto ciò è servito a qualcosa. È un ‘tutto al proprio posto’ definitivo, notizie dalla vita vera: «A Cla’/ com’è andata poi?/ Sai se/ abbiamo vinto noi?».

 

[1] Succede in alcuni cantautori che compongono col pianoforte e, soprattutto, con la chitarra, di scrivere melodie in maniera ‘facile’, perché dedotta dalla nota più alta di un giro di accordi suonati. Nel caso della chitarra, queste melodie in genere derivano dal suono del ‘mi cantino’ nelle varie posizioni.

[2] F. M. Caggiani, Oltre. Storia e analisi del capolavoro di Claudio Baglioni, produzione indipendente, p. 28.

[3] E. de Angelis, La vita è Claudio?, L’Arena, 15 settembre 1986, ora in E. de Angelis, op. cit., pp. 202-203.

[5] P. Talanca, Immagini e poesia nei cantautori contemporanei, Bastogi, 2006, p. 15.

[6] Ma anche in Oltre ciascun brano rende molto bene la volontà dell’autore pur se eseguito in solitaria da Baglioni.

[7] Il grassetto è in corrispondenza della nota più alta.

[8] F. M. Caggiani, Oltre. Storia e analisi del capolavoro di Claudio Baglioni, op. cit., p. 115.