Elio e le storie tese VS Francesco Baccini, tra l’icona di Sanremo e la poetica della canzone d’autore
Si è concluso da pochi giorni il Festival di Sanremo 2016, probabilmente una delle edizioni più povere di belle canzoni degli ultimi anni. Hanno vinto gli Stadio, con un brano scartato l’anno prima e, più in generale, persino gli artisti che di solito lasciano il segno hanno fatto fatica a convincere, ad eccezione forse del solo Enrico Ruggeri, che con la sua Il primo amore non si scorda mai ha quantomeno proposto un brano gradevole, dal testo elegante e dal graffio rock d’autore a cui ci ha abituato negli anni.
Non si sono distinti invece Elio e le storie tese, che col brano Vincere l’odio volevano riproporre la propria abituale dissacrazione all’icona sanremese, perfettamente riuscita nelle loro passate partecipazioni (cfr. La terra dei cachi o La canzone mononota), ma farraginosa quest’anno, con un brano che con sette ritornelli e senza strofe mostrava un’anima informe che non entra mai in rapporto dialettico col contesto: caratteristiche che sul palco dell’Ariston vogliono dire, semplicemente, mancanza di significato.
C’è da dire che lo sberleffo di un’icona forte e precostituita – com’è senz’altro quella di Sanremo – ha rappresentato spesso in passato uno stratagemma convincente, per canzoni artisticamente molto valide. E, come succede in questi casi, più è forte l’icona da sbeffeggiare, più la cosa riesce.
Io credo che ci sia un cantautore in Italia che più di ogni altro abbia fatto di questo meccanismo uno stile d’autore assolutamente riconoscibile: Francesco Baccini.
Per quanto, infatti, Baccini abbia partecipato a Sanremo solo nel 1997, un anno dopo la prima degli Elii, il meccanismo della riproposizione, giustapposizione, capovolgimento e sberleffo d’icona ha sempre fatto parte del suo modo di scrivere canzoni. Perciò di seguito mi occuperò del suo stile, partendo da uno dei suoi brani più conosciuti e riusciti, Margherita Baldacci, contenuto nell’album Nomi e cognomi (CGD, 1992), cercando di porre l’attenzione sul modo in cui Baccini riesca a parodiare gli stereotipi di certe canzoni melense o fintamente tragiche di troppa musica pop italiana, e arrivando ovviamente al Festival di Sanremo. Baccini negli anni lo ha fatto sempre con uno stile d’autore, a volte addirittura confuso con lo stesso pop ruffiano e strappalacrime.
Partiamo da un punto: la differenza tra icona e poetica.
- Se l’icona è uno stratagemma del genere Pop che punta sulla riconoscibilità dei ‘lineamenti musicali’ o degli argomenti triti e immediatamente noti e rassicuranti,
- la poetica è invece uno stile personale dell’autore, e prescinde dalla riconoscibilità; la poetica rappresenta il proprio modo di fare musica al di là del punto di vista dell’ascoltatore e, per questo, è uno degli elementi principali del genere ‘canzone d’autore’.
«Insomma: l’icona è la scelta giusta e che funziona, che si ripete in quanto giusta; la poetica è una scelta personale tra le tante possibili, che si ripete in quanto proprio modo di fare»[1].
Sarà forse una distinzione a cui bisognerebbe dedicare più tempo perché ci convinca, ma dovremmo fare lo sforzo qui di prenderla per buona per capire più a fondo a cosa punta una canzone come Margherita Baldacci.
Parola all’autore:
«È una vera e propria telenovela, anche perché quelli erano gli anni in cui andavano molto di moda le telenovelas, le canzoni strappalacrime, le malinconie, gli adolescenti piangenti, e io, con l’atteggiamento tipico del ligure che prende in giro i buoni sentimenti, sono sempre stato abbastanza critico di queste cose. Margherita Baldacci era una risposta anche al momento particolare che erano i primi anni Novanta»[2].
Probabilmente due sono i riferimenti principali: Marco Masini e Luca Carboni. Il primo per via delle perenni depressioni e delle tristezze delle sue canzoni, che sfrutta(va)no quindi un’icona in effetti facile e scontata; il secondo per via delle storie minime e in genere depresse raccontate nelle canzoni, su tutte l’epopea di Silvia che sa che Luca si buca ancora.
Partiamo dalla sinossi, declamata dallo stesso autore durante il brano:
«Questa è la storia di Margherita Baldacci una ragazza di periferia, una ragazza che lavora in pizzeria, abita in Viale Ungheria. Lei sta con Giuseppe Mirella, detto Pino, operaio in fonderia… mamma mia. […] Pino Mirella fa una festa, una festa di compleanno, invita Margherita Baldacci e lei commette un grave errore: porta la sua amica Mirella. Pino Mirella s’innamora di Mirella e scappano insieme e lei si butta dalla finestra… che sfiga. […] Ora di Margherita Baldacci ci resta soltanto un mazzo di fiori sul selciato… ’azz».
Baccini si muove estremizzando addirittura l’icona strappalacrime, fino a creare uno straniamento voluto e spesso persino non rilevato da chi dà credito a quelle canzoni così incredibilmente tristi:
«C’è chi ha capito la canzone e chi invece non l’ha capita e mi diceva con gli occhi lucidi: “È bellissima”. E a me dispiaceva anche deluderli e dire che era una presa in giro. Era un po’ come dire che Babbo Natale non esiste. Quando uscì la canzone mi spaventai, perché a una partita della nazionale cantanti venni acclamato dalle ragazzine proprio perché credevano che Margherita Baldacci fosse una canzone di quel versante. Io mi dicevo: “E io come lo spiego loro che la Baldacci è una canzone da ridere?”»[3].
È la prova del fatto che a certi ascoltatori si può davvero propinare di tutto, anche quando il passo è stato scritto col preciso intento di non dire niente. È il caso per esempio dell’immagine del «bisonte insaponato sui binari di un metrò»:
«Mi è venuta questa immagine assurda proprio perché nelle canzoni strappalacrime dei cantanti piangenti di cui parlavamo prima ci sono sempre immagini un po’ curiose. Pensa al “guerriero di carta igienica” in Ti amo di Tozzi. Ti chiedi: “Ma che cazzo vuol dire?”. Però ti rimane in mente. […] Il bisonte insaponato me lo vedo sempre a Loreto [stazione metro di Milano n.d.r.] sui binari che si domanda: “Ma io che cacchio c’entro con la Baldacci?”»[4].
Succede allora che il nome Margherita rimandi alla canzone omonima di Riccardo Cocciante del 1976, in cui fra l’altro c’è lo stesso giro di accordi per la strofa iniziale: brano in minore e sequenza Im-IVm-VII-III. A questo proposito l’azzardo non del tutto immotivato sarebbe quello di vedere nel Pino Mirella, fidanzato della Baldacci e «nuovo romantico/ poeta di periferia» proprio lo stesso Cocciante.
All’inizio c’è una serie di rime in -ia che rendono il senso (in maniera del tutto kitch, ma evidentemente non riconosciuta) del poetico a forza (fra l’altro rimano anche con la parola ‘poesia’), della parvenza aulica:
Conosci una ragazza di nome Baldacci?
Lavora in una pizzeria.
Sta da quattro mesi con Pino Mirella
capofficina in una fonderia.
Lui!
Nuovo romantico, poeta di periferia.
Lei stende la pasta e intanto sogna di fuggire via, via, -ia, -ia.
Addirittura la rima è ridicolizzata, essendo ripetuta da sola pervicacemente prima del ritornello, su un accordo sul V grado che sospende e chiama l’apertura. La canzone presenta il classico passaggio dal minore al maggiore sul ritornello, in cui la melodia si apre e diventa ariosa, dopo che Baccini nella strofa aveva fatto una imitazione della voce di Carboni. E qui giù con frasi trite, tipo «C’è un universo in te», continuamente intervallate tirando la corda della parodia con espressioni come «io cerco e non lo trovo» (l’universo) o «sarò una testa d’uovo».
Ad acuire il senso di gravità inchiodante Baccini nelle strofe si serve del coro che, come in una nemesi da tragedia greca, interviene immediato e puntuale a dare il senso di struggimento fatale nella descrizione, col «Lui!», con le parole inesorabili del «Non la dovevi portare!» sottolineando l’errore irrimediabile della Baldacci, in una strofa che descrive una situazione abbastanza comune ma con un fare aulico decisamente inappropriato: è l’uso dell’ironia non nel significato delle parole ma nel modo di porle, nel cantato, è antifrasi pragmatica e non semantica, tutto precisamente coerente con l’andamento parodico del brano e con l’oggetto artistico ‘canzone’.
La donna sdogana la goffaggine a elemento emozionale nel momento in cui si sente la sua voce (nel disco Lalla Francia): quando la Baldacci ci parla del suo errore, cioè aver portato l’amica Mirella alla festa, dice una banalità, una situazione successa un’infinità di volte, ma con lo stesso afflato di Amleto col teschio in mano – per via del canto struggente e della tensione musicale che monta sull’accordo sul V grado –: è un Amleto che somiglia anche a Geppi Cucciari; così quando dice «io stendevo la mia pasta» persino l’armonia concorre a proporre un passaggio conosciuto I-IV-IIm-V, empatico, emozionale, ma per dire che cosa? Niente di importante. Da questo momento in poi «siamo tutti Baldacci!», volemose bbene, porella, mortacci…
Sono tutte icone che Baccini raggruma e organizza secondo il proprio stile. L’album Nomi e cognomi infatti è formato da brani dedicati a personaggi illustri, talvolta illustrissimi come Maradona, Andreotti o colleghi come Venditti e Celentano. Lo stratagemma principale di Baccini – presente in Margherita Baldacci, in tutto l’album e più in generale nel suo stile – è quindi prendere materiale straconosciuto, icone dai lineamenti inconfondibili e riutilizzarli secondo la propria poetica, già ben evidente nei primi due album Cartoons (CGD, 1989) e Il pianoforte non è il mio forte (CGD, 1990) e che prima e poi avrebbe portato a canzoni come Qua qua quando o Senza tu, vero e proprio collage di citazioni musicali e testuali, proposta nel tempio dell’icona riconoscibile che è, appunto, il Festival di Sanremo.
Il funzionamento è il seguente: usare delle icone per applicare una poetica; a ben vedere non siamo lontanissimi dal meccanismo delle serigrafie warholiane, in cui sono importanti esclusivamente i lineamenti dell’icona Marylin, da riproporre in diversi colori e avvalendosi della sola fissità del riconoscibile.
La cifra stilistica del primo Baccini, dunque, non era banalmente l’ironia: quella c’era, ma si serviva di elementi molto più importanti, molto più significanti e pregnanti per lo stile del cantautore genovese. E allora comprendiamo le parole dell’autore quando dice:
«Dopo Nomi e cognomi mi ero stancato di esser preso come quello solo ironico, quello che scherza ma che in realtà non deve esser mai preso troppo sul serio. È un rischio tipico di chi fa ironia quello di essere sempre considerato un giullare. Così nel disco Nudo ho cambiato registro, tirando fuori un versante un po’ più intimista oppure più ‘politico’»[5].
Dunque, per concludere, Elio e le storie tese quest’anno a Sanremo non hanno particolarmente convinto perché Vincere l’odio è davvero sembrato un puro esercizio di stile, che stiracchiava troppo l’icona sanremese (quella dal bel ritornello), tanto da ‘strapparla’ e sfigurarla del tutto, pregiudicandosi così il rapporto dialettico con essa, vero e proprio elemento imprescindibile.
[1] P. Talanca (a c. di), Nudi di canzone, Zona, Arezzo, 2010, p. 99.
[2] F. Baccini, in M. Angiolani – A. Podestà, Francesco Baccini. Ti presto un po’ di questa vita, Zona, Arezzo, 2010, p. 40.
[3] Ivi, p. 41.
[4] Ivi, p. 41-42.
[5] Ivi, p. 40.
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