Giorgio Gaber. Intellettuale libero contro il pensiero unico
Questo scritto è liberamente tratto dal mio libro Il canone dei cantautori italiani. La letteratura della canzone d’autore e le scuole delle età (Carabba, 2017), e parla del gigante che è stato Giorgio Gaber, artista libero che ha letteralmente inventato un genere in Italia.
Cosa rende Gaber unico in Italia? Il teatro o, meglio, la canzone pensata per il teatro.
In teatro ogni canzone è, musicalmente, un’avventura inedita. Il disco, per sua natura, si presta a diversi ascolti e dunque a diverse letture. Sul palcoscenico, invece, il problema fondamentale è che devi fare colpo subito, devi importi a tutti i costi all’attenzione della platea, altrimenti è un guaio. E devi ottenere questi risultati con un prodotto che il pubblico non ha mai ascoltato in precedenza, che gli giunge completamente nuovo. Così alcuni lussi che ti puoi permettere sul disco, dove confidi in una maggiore possibilità di ‘comprensione’ da parte di chi ti può ascoltare più di una volta, in teatro te li devi scordare. Hai bisogno di una musica che sia insieme semplice, immediata e molto suggestiva, che catturi l’attenzione del pubblico e non la lasci più fuggire.[1]
La scrittura di brani da inserire in un discorso teatrale ha bisogno di tener conto di pensare ogni canzone in una drammatizzazione: il brano serve lo spettacolo e la sua interazione con la poetica del suo autore andrà ricercata non solo nel rapporto tra essa e i topoi dell’autore, ma tra essa stessa, questi topoi e il significato dello spettacolo. Anche il disco non sarà una silloge che si fa a propria volta opera d’arte, utile a contenere un significato ‘di passaggio’, che si pone vagamente tra il brano e la poetica dell’autore, ma rappresenterà un documento, perché la vera opera d’arte sarà lo spettacolo: il disco è una testimonianza dell’opera, non l’opera stessa. La situazione è precisamente capovolta rispetto al caso tipico di tutti gli altri cantautori.
In quel periodo [cioè l’inizio degli anni Settanta, i primi tempi del ‘teatro-canzone’] non solo avevo rinunciato al mondo discografico, ma anche ai giornali. Questo non tanto per il gusto di polemica (anche se certo, come censurava la televisione non lo faceva nessuno), ma proprio perché mi era, e mi è, più congeniale il rapporto con il pubblico. Questo rapporto, in particolare. Quello di stare due ore insieme e di dire ciò che si pensa. Il disco è un oggetto, non c’è questa fisicità. Io vivo ogni sera qui e ora, e lo vivo tutti i giorni.[2]
L’esclusività di Gaber però non si limita all’aspetto formale. Se tra i cantautori storici la posizione destrorsa di Bruno Lauzi contenutisticamente rappresenta un caso particolare per la canzone d’autore italiana, Gaber, pur da posizioni di sinistra, negli anni Settanta è forse il più importante cantautore critico col pensiero unico. Il movimento ideale delle canzoni del cantautore milanese parte dal collettivo e si risolve quasi sempre in un individualismo inevitabile e disperato. Questo è un punto cruciale per il suo pensiero, che lo distingue da quasi tutti gli intellettuali organici e i principali cantautori – di sinistra – di quel periodo. Leggiamo significativo passo di un paragone che Scanzi fa tra Giorgio Gaber e Dario Fo:
Entrambi partivano da una posizione che sbertucciava il potere, ma alla fine degli spettacoli di Gaber c’era una grande solitudine. Tutti i protagonisti degli spettacoli di Gaber sono avvolti da una sorta di solitudine obbligatoria: cercano di appartenere politicamente, di trovare qualcosa di veramente giusto, bello, positivo, un bene contro il male e non lo trovano. E infatti il suo teatro sfociava, non dico nel nichilismo, ma nella rabbia e nell’invettiva. Con Fo, invece, c’era sempre un sottotesto che dava speranza, secondo cui lui era l’artista e incarnava ‘il bene’; il pubblico che lo andava a vedere incarnava ‘il bene’, quindi la realtà era abbastanza chiara: i buoni contro i cattivi. Gaber diceva: «La rivoluzione oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente». Ma lo affermava ironicamente. Fo diceva: «La rivoluzione oggi no, domani non la facciamo perché noi italiani siamo lenti, ma dopodomani la faremo e io sarò con voi, perché io vi dico come si fa la rivoluzione.»[3]
Vediamo ora, per Gaber, come a tutto questo, soprattutto grazie all’ironia di cui parla Scanzi e allo sberleffo, si arrivi attraverso il testo e la letterarietà, che completa la scrittura con la recitazione della canzone. Prendiamo una delle sue canzoni più importanti degli anni Settanta, Far finta di essere sani (Carosello, 1973).
Vivere, non riesco a vivere,
ma la mente mi autorizza a credere
che una storia mia, positiva o no,
è qualcosa che sta dentro la realtà.
Nel dubbio mi compro una moto,
telaio e manubrio cromato,
con tanti pistoni, bottoni e accessori più strani:
far finta di essere sani.
Dopo aver chiaramente affermato che «una storia mia, positiva o no,/ è qualcosa che sta dentro la realtà» Gaber passa a descrivere i modi per far finta. Nel passo «con tanti pistoni, bottoni e accessori più strani», la recitazione evidenzia l’allitterazione sulla vocale tonica seguita da nasale, fino ad arrivare all’elencazione delle caratteristiche della moto: «pistoni, bottoni e accessori» sono catalogati con un andamento ancora allitterativo della vocale tonica, ma che muta la consonante seguente nel terzo elemento – due nasali ed una vibrante –, secondo l’impostazione tipica dell’anafora. Il fatto, poi, di mettere in rima due parole come ‘strani’ e ‘sani’ dona un forte accrescimento semantico, in un paradosso che accentua la forzata finzione del protagonista.
Lo spettatore, l’ascoltatore è affascinato da tutto ciò e certamente non riesce a cogliere i motivi del proprio entusiasmo: attribuisce il proprio coinvolgimento ad ogni spettacolo di Gaber al semplice riconoscimento di una consonanza di esperienze, di impressioni, di riflessioni; al godimento che l’insieme della messa in scena produce, e non si può accorgere che l’espressione di tanto vissuto collettivo, rivisitata attraverso la poesia, è il frutto (oltre che delle riuscite soluzioni teatrali) anche di una perfetta organizzazione del testo.[4]
Il brano Far finta di essere sani è eponimo dello spettacolo teatrale del 1973, che affronta i temi della follia come elemento quantitativo, non qualitativo. Nel testo viene fuori chiaramente la velata denuncia ammantata di ironia verso l’ipocrisia di chi nasconde le proprie insofferenze attraverso l’acquisto di prodotti futili di consumo; per farlo, la parola si unisce alla recitazione e acquisisce significato in una ‘dialettica tripolare’, tra la stessa canzone, lo spettacolo e la poetica generale del suo autore. Tutto questo, con questa forza, non esisteva in Italia prima di Gaber.
[1] M. Serra, Giorgio Gaber. La canzone a teatro, Il Saggiatore, 1982, pp. 44-45.
[2] G. Gaber, Dialogo tra l’arte e il non so…, intervista con G. De Grassi, “Blu”, n. 4, 1992. Ora in M. Bonavia (a c. di), Giorgio Gaber. Frammenti di un discorso, Selene, Milano, 2004, p. 143.
[3] A. Scanzi, intervento nella trasmissione televisiva “Otto e mezzo” diretta da Lilly Gruber del giorno 11 ottobre 2016. Raggiungibile su “Il Fatto Quotidiano” all’indirizzo: http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/10/14/dario-fo-dagostino-vs-scanzi-e-la-sua-vita-coniugale-no-al-santino-non-puoi-semplificare-cosi/567605/567605/ consultato il 16 ottobre 2016.
[4] N.Longo, Sulle forme letterarie del testo delle canzoni di Giorgio Gaber, in Dopo i Beatles, musica e società negli anni Settanta, a cura di U.Bultrighini e G.Oliva, Carabba, Lanciano, 2003, p. 232.
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