Intervista a Carmen Consoli settembre 2008
Sono andato a trovare Carmen al suo concerto alla Festa dell’Unità di Reggio Emilia. Dovevamo parlare del mio libro e delle sua canzoni, ma poi la chiacchierata si è allargata ad argomenti di strettissima attualità, tra salsicce post-concerto, lambrusco e la trascinante solarità di una donna assolutamente unica.
Ne è venuta fuori questa chiacchierata (credo) interessante.
***
Ciao Carmen, nel mio libro voglio seguire l’esempio di un altro volume, di Giuliani del ’61, in cui si fa la differenza tra la poesia piatta di quel tempo e la nuova poesia, la nascita della neoavanguardia. Qual libro si intitolava “Poeti Novissimi”. Io nel mio libro – “Cantautori Novissimi” –, voglio fare la stessa cosa, cioè una separazione tra la canzone pop commerciale e la canzone d’autore. Dove Giuliani de-costruiva un linguaggio per costruirne un altro, io dico però che i Novissimi devono seguire la strada della grande canzone d’autore italiana degli anni Settanta, influenzata a sua volta dalla Francia e dall’America. La prima domanda quindi è questa: quali sono stati i primi autori o le autrici che ti hanno influenzato?
Tanti. Io in fatto di musica sono onnivora, sono stata influenzata sia da interpreti che da autori, o cantautori; è un’urgenza quella di poter cantare e dar voce al proprio animo e poter scrivere ciò che si sente. Per cui, pur essendo due aspetti completamente diversi, riescono ad essere simili, perché secondo me l’interprete è anche “un poeta”, come molti attori bravi che non inventano la sceneggiatura che recitano. Ho ammirato moltissimi artisti: credo di avere cominciato con Modugno, poi De André e gli autori italiani che raccontavano quelle storie e immaginavo Marinella, immaginavo questo amore lontano che è come il vento, che alimenta i fuochi grandi e spegne quelli piccoli. Poi anche i cantanti d’altroltreoceano, anche se non mi sono mai soffermata tantissimo sull’America devo dire; qualche cosa mi piace dell’America, qualche cosa che hanno portato i neri dall’Africa però, quindi mi piace la musica africana, per cui tutto il blues, i surrogati del blues, il jazz, perché sento il sangue, la passione. Sulla poesia, io credo molto che tanti contemporanei, poeti-cantautori contemporanei, abbiano scritto delle poesie; cioè molta poesia sia da cercare, ad esempio, nelle canzoni di De André, di Fossati, in tantissime “poesie” di De Gregori, come le metafore sul calcio, oppure le storie indimenticabili di Fabrizio De André.
Se la canzone d’autore è qualcosa di artigianale, in cui inoltre è chi fruisce va incontro all’artista e non viceversa – perché l’artista ha qualcosa da dire e ha un suo stile personale – tu in questo caso ti distingui chiaramente; usi spesso due parole con “l’accostamento di due termini antitetici o, nel caso di – per esempio – “Confusa e felice”, ambiguamente consequenziali”; poi l’uso degli aggettivi: io credo che già sul tuo modo di usare gli aggettivi sulle canzoni si potrebbe scrivere un libro; poi la tua voce, molto particolare, coerente col fatto che, come dicevi prima, per te anche l’interpretazione può essere “poesia”, e chiaramente la canzone d’autore è fatta di tre elementi, cioè musica, testo e interpretazione. Questo – e molto altro – dà alle tue canzoni un “imprinting” d’autore, e le canzoni diventano “tue”, diventano uniche. Ecco, questo nel pop commerciale non c’è, perché molto spesso è una casa discografica che impone un certo tipo di arrangiamento e altro, no?
Vero. Anche un certo tipo di testo, ti dice che certe parole sono difficili, certe tematiche sono difficili e non va inficiata la leggerezza che si deve diffondere dai network, perché ciò porterebbe meno pubblicità e, insomma, tante piccole cose, come nel mondo di Orwell, no? Ci stiamo sempre più orientando verso questa piccola censura che non è fatta con le leggi o la violenza, ma una piccola censura fatta con la paura di non essere famosi, e allora “scrivi su queste tematiche che non si devono allontanare dall’amore, al limite da una storia d’amore finita e tu soffri. Non ti allontanare da queste tematiche perché devono accontentare le aspettative della maggior parte delle persone”. E sempre di più questa fame e questa sete di sapere, dai cantautori, storie – che ne so: “Bocca di rosa” – si allontana: a chi gli frega? Chi si rivede in Bocca di rosa?
Si è sempre meno cantastorie, vuoi dire?
È difficile, sì, ma anche nel cinema sto notando questo. Oggi i film italiani, ho notato, o parlano d’amore, o di conflitti generazionali o di mafia. Oggi i film italiani non hanno più le sceneggiature di una volta, mentre i francesi ad esempio hanno tantissima fantasia e da noi nei temi si parla solo di questo.
Si rischia sempre di meno, quindi. Spesso è imposta questa cosa.
Sì, e poi, se a delle persone fai bere del vino scarso, la prima volta che porterai un vino d’annata, un vino particolare, giustamente, non verrà gradito, perché la gente è abituata a bere il vino nel cartone e gli sembrerà cattivo il gusto del vino buono. Per cui stiamo abituando le persone a bere vino cattivo, come in Orwell, e quindi la richiesta è di vino cattivo; e lo sarà per altri dieci anni, per altri venti anni, da quando non si deciderà di diffondere il vino buono, perché non è che se si decide di diffondere il vino buono questo subito prenderà il sopravvento. Bisognerà pagare a lungo questa presenza di vino cattivo.
Sei d’accordo se ti dico che la valenza artistica di una buona canzone d’autore, ontologicamente – quindi nella sua essenza e non come è data –, risieda nel solo testo nella melodia e nella successione armonica, quindi chitarra e voce o piano e voce, a seconda di come la canzone è nata?
Io sono d’accordo, tant’è vero che ho sempre cercato, in questi anni, di fare capire che spesso non c’è rock, musica classica, musica jazz, per una canzone, perché la si può fare rock se metti una chitarra elettrica, la si può fare jazz se metti un piano. Una canzone è un contenuto, è un corpo; tu metti dei vestiti su questo corpo ma alla fine, se la canzone ha valore, si sostiene anche chitarra e voce; se è rock, è rock anche chitarra e voce e ce lo dimostra, non so, Joni Mitchell o, che so, il fatto che cantanti più rock di Joan Baez non so se siano mai esistite. La canzone non è “rock” solo se fai muri di chitarra elettrica; è molto superficiale come descrizione. Invece vorrei spogliare il più possibile le mie canzoni, lasciarle a nudo o mettere proprio due straccetti, giusto per non lasciarle nude. D’accordissimo.
Forse anche il tuo ultimo album va verso questa direzione, no?
Sì, ho proprio questa esigenza di spogliare del superfluo; poi, noi veniamo dagli anni Ottanta e dagli anni Novanta, che sono stati anni di grande marketing, di grande pubblicità, di eccessi, di orpelli, di “tutto tanto”, già se vediamo le nostre trasmissioni televisive, con donne molto truccate, tutto molto arrangiato; i libri che sono usciti negli anni Novanta erano pieni di questi termini ridondanti, preziosismi lessicali, acrobazie di linguaggio, e diventava anche “pericoloso” leggersi i libri, ti fai male [ride], a scapito della semplicità e del minimalismo. Invece questo è un periodo in cui serve svestirsi del superfluo, ma in generale lo vedo anche nella moda e in tutta la tendenza.
Ma poi soprattutto in canzone: la canzone è una atto diretto, deve avere molta immediatezza comunicativa…
Sì, sono d’accordo.
In Sicilia è nata la poesia italiana e lì c’è una forte tradizione di canti popolari – fra l’altro stasera ne hai dato anche una bellissima dimostrazione con “Malarazza”.
Ecco: tu sembri molto legata ai temi della tradizione e in queste canzoni diventi decisamente più una cantastorie. Da “Maria Catena”, che è la canzone che analizzerò nel libro – ma che poi serve per analizzare il tuo stile –, a
“Masino”, ma anche “In bianco e nero” e altre. Diciamo che ti vedo come una “restauratrice di tesori”, cantando canti della tua terra e scrivendo canzoni spesso da essa ispirate.
Quanto è importante per te, e in genere per la canzone d’autore, questa tradizione di canti popolari (per te il siciliano, ma più in generale napoletani, romani etc)?
Sì, canti delle proprie radici. Fondamentale, perché un albero senza radici è come una pianta che dà dei frutti fittizi e che non durano. Io credo molto nelle radici e credo che debbano fortificarsi, per questo faccio sempre questo viaggio. Adesso è difficile, perché queste radici sono veramente coperte e gli strati di terra sono tanti, perché spesso si tratta di un passato remotissimo, che è stato anche sepolto e siamo stati privati della facilità di accesso a questi canti. Io credo che ogni popolo abbia la propria identità e che debba confrontarla con gli altri popoli, però, ecco, “appropriarsi della lingua dei propri padri”, come dice Butitta – per noi il siciliano, per voi sarà l’abrizzese – è un appropriarsi della propria identità. Butitta diceva “Togli a un popolo il passaporto, togli il letto nel quale dorme, togli il cibo, togli qualsiasi cosa, ma quando togli la lingua dei padri è come se gli levassi tutta l’identità”. Ora non è solo col siciliano, ma in generale noi italiani abbiamo cercato di sottovalutare i dialetti regionali ma in realtà l’Italia è un luogo che ha questo tesoro incredibile. La Francia non ce l’ha, ma sono molto più uniti di noi.
Sì, e poi è molto più centralizzata da Parigi…
Esatto, noi invece ancora abbiamo queste lingue regionali, e sono vere e proprie lingue e te ne rendi conto se le vai a studiare. Se vai a fare il passato remoto del verbo “guardare” in siciliano, o lo studi o lo parli scorrettamente e sei sgrammaticato: innanzi tutto l’infinito è “taliari”, quindi già parliamo di un’altra lingua, e poi il passato remoto è “iu taliai, tu taliasti, iddu taliau, noautri taliamu, vuatri taliastu, iddu talianu”, quindi va studiato. E poi ci sono altre regole, sintassi diversa come nel riflessivo “Come si cci va là?”, invece di “Come ci si va?”, e questa cosa è francese, per esempio, in Francia si dice così “On y va”.
Sì, poi, molte parole rimangono con nessi latini e non seguono la grammatica storica dell’italiano…
Sì. Ora: noi ci siamo sempre detti che la poesia italiana ha delle origini in Sicilia; è vero, ci fu la Scuola poetica siciliana, ma parlando di lingua il nostro dialetto ha le stesse basi del volgare italiano, che poi è diventato l’italiano che tutti noi oggi conosciamo – e che probabilmente tra cinquant’anni si evolverà in maniera tale che sarà un misto inglese o non si sa cosa –, tant’è vero che il nostro dialetto lo capiscono tutti. Cioè, noi siamo andati con Emma Dante a recitare completamente in dialetto…
Sai, l’italiano è una lingua imposta in maniera artificiale, quindi purtroppo i dialetti…
Mah, guarda l’italiano è una lingua nuova in realtà. Io ho fatto un conto, ma proprio con le mani: fino alla seconda guerra mondiale c’erano i traduttori dal dialetto veneto al dialetto calabrese, “chisti erano i traduttori”; poi, dopo la seconda guerra mondiale, con l’avvento della televisione, si è diffusa questa nuova lingua – che tra cinquant’anni sarà l’inglese – e infatti l’italiano è una lingua nuova. Quando questo italiano si arricchisce – come diceva De André – di lingue antiche, che sono il genovese e le altre, diventa più colorita, tant’è vero che il nostro teatro che funziona meglio è quello in dialetto, qualsiasi dialetto sia: “La locandiera”, veneto, il napoletano, il siciliano. Quindi c’è una lingua italiana che si deve evolvere e che ultimamente si sta invece un po’ scolorendo, secondo me, sta diventando sempre più semplice e vuole diventare molto più scarna di contenuto, di eleganza. Io piuttosto la arricchirei di termini presi dai dialetti vari, delle varie regioni, invece di arricchirla di termini che vengono dall’inglese, che suonano male vicino a una lingua romanza. Io parlo l’inglese e amo l’inglese; è una lingua che mi piace molto, sono bilingue e la parlo come l’italiano, ma in tutto questo io non riesco ad accostare le due lingue, perché sono talmente di matrici diverse che non suonano bene insieme e mi viene più facile accostare il francese e usare i francesismi, per esempio.
Sì, lingua romanza, come il siciliano, d’altronde, o il romeno o lo spagnolo…
Certo, e pensa che noi abbiamo portato questo disco dei Lautari in giro e ci dicevano “Ma cos’è? Portoghese? Che dialetto portoghese è?” [ridiamo]
Allora, ti faccio l’ultima domanda. Passiamo alla canzone di cui parlerò nel libro e che mi servirà per analizzare il tuo stile: “Maria Catena”. In te ho notato che c’è una tendenza ad analizzare le figure femminili. A partire dal fatto che l’ultimo disco è fatto un po’ di storie singole, come “Signor Tentenna”, “Piccolo Cesare”, poi comunque abbiamo Eva e, più indietro, “Contessa Miseria”. “Maria Catena”, però, è emblematica, perché ha molti temi della tua discografia, come la denuncia alle cattiverie meschine, ai paradossi come il prete che non vuole dare l’ostia e il crocefisso stupito. Sei d’accordo però se ti dico che in questi personaggi, più che denunciare la cattiveria delle persone che comunque c’è, tu ti rivolgi più ai protagonisti delle tue canzoni, che si sentono sconfitti e non riescono a reagire?
Infatti, con ogni personaggio io poi a un certo punto ritaglio un dialogo, per esempio nella canzone in questione “Maria Catena anche tu/ conosci quel nodo/ che stringe la gola”. Quindi creo questo dialogo in cui parlo a questo personaggio che subisce la situazione. Io credo molto alla legge di causa/effetto, per cui non sono personaggi sconfitti, sono personaggi che vivono questo karma e, in qualche modo, accettandolo lo superano, perché ciò che capita loro è una causa innescata in passato probabilmente. Parlo di personaggi femminili perché parlo dei loro disagi, di un vivere che non è celestiale, perché si svolge sulla terra, non sul Paradiso Terrestre, per colpa di una donna; la donna dai preti è ancora guardata così, colpevole del peccato originale, tentata dal serpente, è stata sempre vista come fonte di peccato. Ricordo un’immagine letteraria in cui una donna si infliggeva delle pene sulle carni per espiare il peccato. In “Maria Catena” c’è, appunto, la metafora di questo fardello che si trascina.
Anche con i nomi c’è una particolarità nel tuo stile. Io sono di Pescara, in Abruzzo, e questa è una cosa che riscontro ancora anche dalle mie parti – forse un retaggio, nemmeno molto conscio, di tradizioni sacrali –: individuare, in un nome inventato, una persona, tramite un meccanismo sacrale. Rientra in ciò anche il tuo chiamare “Cristoincorce” un crocefisso, ma poi “Maria Catena”, “Signor Tentenna, “Contessa Miseria”, sono etichette, più precisamente allegorie, come se, nel momento in cui stai chiamando quella persona, tu la rivestissi di una misticità particolare – quasi la esorcizzassi. Anche questo è secondo me indicativo del tuo stile.
Infatti mi piace molto, però fa parte di noi del sud, e anche di voi. Noi diamo sempre i nomignoli, e le persone le riconosciamo sempre con i nomignoli, come “il Bussola”, “Turi Mazinga”, “Turi Feto” perché puzza [ride]. Volevo aggiungere un’altra cosa sulla tua analisi – che mi è molto piaciuta – a “Maria Catena”. Noi siciliani crediamo – e comunque io ci credo molto – alle questioni genetiche: noi ereditiamo un dna, quindi anche un’attitudine genetica. Una di queste in Sicilia è il fatalismo, ma non nel senso moderno del tipo “le cose vanno come devono andare”; no, fatalismo nel senso “è inutile fare le cose per cambiare, tanto non cambierà mai niente”, e questo è Verga per esempio, il “Rosso Malpelo”, in cui questo ragazzo che solo per il colore dei capelli è soggetto alla discriminazione ma soprattutto alla superstizione. Quindi sono personaggi che affrontano il proprio destino ma si vede che sono pre-destinati, come i Malavoglia, e anche qui torna il nome allusivo.
Questa cosa parte da una visione non dialettica della storia, da Schopenhauer, poi Leopardi, solo che in Leopardi poi c’è la dignità della Ginestra che sa del suo destino e non è cretina come gli uomini, che pensano di raggiungere l’Olimpo; no, la Ginestra è lì, fiera, sa del suo destino. Questa visione non dialettica poi può appunto arrivare a Verga e alla rassegnazione. Sì, c’è anche dalle mie parti questo modo di vedere la vita.
Sono le parole di Verga “L’uomo è come un’ostrica attaccata allo scoglio”; è inutile che questi Malavoglia partano…
Io credo che c’entri anche il fatto che al sud, o anche da noi, si è sempre stati un popolo dominato – spagnoli, francesi –, quindi questo fatalismo è probabilmente congenito e derivante dalla situazione storica.
Certo, e anche oggi da noi vige “è inutile che si fanno cose, tanto…”. Quando si accennava a cambiare hanno fatto scoppiare qualche fuoco d’artificio… è un karma di popolo terrificante!
Da noi si dice “è inutile che fai.. chi ppu fa? chi ppu fa?”
Dobbiamo aspettare che finisca questo circolo, continuando però a fare, quindi continuando a scrivere e fare delle cose belle per il proprio paese. Forse tra cinquant’anni fioriranno queste cose. Coglieremo i frutti nelle nuove generazioni “pecché ora nente potimo fari”, perché nell’immediato che fai? La rivoluzione?
No, beh, io credo che ci debba essere – come diceva qualcuno – “pessimismo della ragione e ottimismo della volontà”…
Ecco, io credo più nella volontà diesel, diciamo, cioè quelle cose fatte sotto sotto…
Cioè la goccia che buca la roccia…
Col tempo, invece che la cosa “tutto subito” con grande volontà. Una cosa oggi, una cosa domani, una cosa dopodomani, nella continuità, fino a quando avrò fiato e speriamo che i miei figli continuino, però è un lavoro molto lento secondo me la rivoluzione, perché deve cambiare le coscienze e deve risvegliare delle coscienze che dormono da troppo tempo. E quindi “è nu travagghiu” [ride], poi le inventano tutte per addormentarle e stordirle.
Eh beh, ormai sono diventati degli specialisti…
Ma tutto! Anche i contenuti scialbi con cui ci bombardano e ci rincoglioniscono. Avrete notato che l’argomento topico in Italia è “Ti sei fidanzato? Ma allora quando ti sposi?”, tutto sull’amore, sul sesso, oppure si parla di calcio. Questi sono gli argomenti. Se vai in Francia invece “Hai visto la nuova mostra di Schnabel? È al Palais de Tokyo. Ma invece piuttosto quella di Frida Kahlo?”, cioè ti trovi gente comune che ti parla di cinema o di qualsiasi cosa e dei fatti tuoi se ne stanno fregando. Invece l’italiano – siccome stanno insegnando alle nuove generazioni a fottersene dei cazzi degli altri – sta lì a guardare dentro le tue mutande come sono i tuoi dettagli anatomici. Questa cosa è gravissima!
Sì, e purtroppo è tacita e non se ne capisce la gravità.
Eh, il problema è che moltiplicano le riviste di merda, la gente non è più disposta a leggere un bel libro perché vuole quegli argomenti.
Poi la canzone d’autore proprio non è riconosciuta, per esempio come il cinema… C’è feticismo, gossip…
Che però, tu per esempio in Inghilterra puoi scegliere il gossip. In Italia, accendi il telegiornale e dentro ci trovi il pettegolezzo della valletta. Io non lo voglio vedere! Perché mi stai imponendo questa cosa?! Se io voglio il gossip è una mia libertà, mi compro il giornale specializzato. Invece noi oggi troviamo, dopo la notizia delle Brigate Rosse, subito la notizia della minchia di Totti.
No! C’è prima la minchia di Totti.
Ah sì scusa infatti [ridiamo]. Io vedo che più va avanti il tempo, più io scrivo canzoni come Eva, più io non vado in radio, perché sono considerate “jazz”. E allora però dieci anni fa “Amore di plastica” che era? Andò in radio e oggi verrebbe considerato un pezzo improponibile.
Sì, il problema delle radio è molto importante per questo discorso. Si cercano sempre più “canzoni radiofoniche”, con un linguaggio scialbo.
Sì, ed è un problema, come dicevo prima. Perché io non credo che alle persone piaccia la pubblicità, ed è invece solo pubblicità. Ma poi il discorso si sposta anche a tutta l’arte contemporanea:
gli artisti vanno via dall’Italia; noi non abbiamo un artista contemporaneo importante che viva in Italia, se ne sono andati tutti in Inghilterra, in America.
Qua vengono trattati a pesci in faccia…
Figurati se l’Italia pensa all’arte contemporanea. Tranne la Biennale, che dedica un piccolo padiglione agli italiani. Però, succede una cosa: questo è quello che vogliono fare credere, poi però in Italia le teste e le menti ci sono, tant’è vero che poi la canzone d’autore, fuori dai circuiti nazionalpopolari, va alla Festa dell’Unità o altrove e la gente viene, e canta le canzoni che non passano in radio, proprio quelle non mandate in radio, proprio quelle nascoste. “Maria Catena” la cantano e non è mai stata trasmessa in radio. Quindi c’è un pubblico che se ne sta fottendo di quello che ci vogliono far credere e questo è importante e bisogna cantare per questo pubblico.
Sì, ma oggi è importante internet. Pochi anni fa non era pensabile quello che stai dicendo. Io oggi penso che questa sia una cosa positiva.
Anche grazie a internet, certo.
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