Lucio Dalla. Futura: analisi di una canzone
Lucio Dalla è un innovatore del periodo maturo della canzone d’autore italiana. Questo è evidente soprattutto da quando, nel 1977 con l’album Com’è profondo il mare (RCA), comincia a scrivere da solo sia i testi che la musica delle sue canzoni. Da lì, e sicuramente per Come è profondo il mare (1977), Lucio Dalla (1979) e Dalla (1980), la sua creatività è radiosa, fino a spingere l’arte della canzone ai limiti delle possibilità linguistiche. Per avvicinarsi alla felice riuscita di quei dischi, vediamo da vicino uno dei brani più rappresentativi dello stile, sia dal punto di vista formale che contenutistico: Futura (Dalla).
Leggiamone i primi versi:
Chissà… chissà domani
su che cosa metteremo le mani,
se si potrà contare ancora le onde del mare
e alzare la testa.
Non esser così seria, rimani.
I russi, i russi, gli americani,
no lacrime, non fermarti fino a domani.
Sarà stato forse un tuono, non mi meraviglio,
è una notte di fuoco.
Dove sono le tue mani?
Nascerà e non avrà paura nostro figlio.
Il brano parte con un’evidente (e letterariamente ostentata) difficoltà di comunicazione tra l’io poetico e il ‘tu’. È come se la cosa da dire fosse talmente importante da non trovare le parole, e la connessione tra due soggetti dovesse avvenire più per via istintuale che attraverso il linguaggio.
Il brano Futura è nato da un’idea di racconto, tanto che ho dovuto passare tre giorni di frustrazione per ridurlo in canzone. Per farne, in sostanza, una sintesi. Che se è uno dei vantaggi della forma-canzone, è anche uno dei grossi handicap. Credo che alla fine un racconto o un libro lo scriverò, anche perché mi sono un po’ stancato di dover sempre comprimere. Con Futura credo di essere riuscito a parlare di quello che succederà in modo efficace, comunicativo, non ideologico o pedante.[1]
Il brano parla della felice inevitabilità del futuro e della fiducia nel domani. Nel 1980, durante gli ultimi scampoli di Guerra Fredda, Dalla racconta la storia di due amanti divisi dal Muro di Berlino. La canzone narra ‘fisicamente’ l’unione dei due corpi e il concepimento di un figlio dei due amanti («e se è una femmina si chiamerà Futura»), che non sarà solamente una speranza, bensì una certezza di futuro. Un modo per descrivere la guerra e le brutture del mondo come cose assolutamente transitorie, che verranno annientate e superate dall’essenza stessa degli esseri umani, concepiti con un respiro più grande e a più lunga gittata rispetto al contingente. Proprio la descrizione di due soggetti differenti e lontani, e la loro unione per creare qualcosa di terzo, diverso e probabilmente migliore, che tende al futuro, è un plot narrativo che ben descrive la poetica di Dalla, presente anche in “Anna e Marco” del disco precedente.
La comunicazione farraginosa iniziale è sorretta e assecondata dall’armonia, che presenta praticamente un accordo per ogni verbo o sostantivo, come un groviglio creativo da cui poi nascerà (anche qui) il verso liberatorio «se si potrà contare ancora le onde del mare», che invece poggia su un solo accordo di seconda minore, e si srotola leggero a risarcimento dell’intrico iniziale. La sensazione dell’intreccio da cui ‘nascerà’ un verso liberatorio, ovviamente, agisce nell’inconscio dell’ascoltatore, sollevato dalla soddisfazione solo intuita della coerenza tra essa e il significato generale del brano, che parla appunto di un concepimento. La canzone infatti prosegue così fino a quando – come fosse una suite – Dalla stravolge completamente ritmo, armonia e melodia del dettato poetico. Leggiamo i versi:
Ma non fermarti voglio ancora baciarti,
chiudi i tuoi occhi non voltarti indietro,
qui tutto il mondo sembra fatto di vetro
e sta cadendo a pezzi come un vecchio presepio.
Di più, muoviti più fretta di più, benedetta!
Più su, nel silenzio tra le nuvole, più su!
Che si arriva alla luna,
sì la luna
ma non è bella come te questa luna,
è una sottana americana.
Allora su, mettendoci di fianco, più su,
guida tu che sono stanco, più su,
in mezzo ai razzi e a un batticuore, più su,
son sicuro che c’è il sole.
Ma che sole, è un cappello di ghiaccio, questo sole
è una catena di ferro senza amore,
amore… amore… amore!
Quando inizia a descrivere l’approccio e poi l’amplesso sulla ripetizione della parola “amore”, Dalla organizza, non certo casualmente, l’armonia che in alcuni passi si muove su due soli accordi che si rincorrono, con la voce che sembra quasi imitare uno scat espressionistico, tipico del jazz e della poetica del cantautore bolognese, che qui però è composto da parole di senso compiuto e che rendono bene l’enfasi del momento, l’attitudine connotativa pur nella denotazione della comunicazione verbale, come a voler significare qualcosa di istintuale come un rapporto sessuale, che sfocia nella parola amore, cantata fino a uno sfumato evocativo, lontano, rarefatto e primigenio.
Alla fine si torna all’armonia consueta della canzone, in un’atmosfera più rilassata ma con una nuova consapevolezza. C’è stato un percorso, tipico del modo rivoluzionario di intendere la forma-canzone di Dalla, spesso lineare e non corrispondente a una gabbia chiusa.
[1] L. Dalla, in V. Pattavina (a c. di), Lucio Dalla. E forse fu per gioco, o forse per amore. Tutte le canzoni, Einaudi, Torino, 2001, p. 186.
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